Gino Strada chi è? Età, Emergency, Malattia, Causa Morte, Figli, Moglie, Simonetta Gola e Teresa Sarti



Gino Strada si è laureato in medicina e chirurgia traumatica presso l’Università degli Studi di Milano nel 1978. Durante la maggior parte degli anni ’80, ha studiato e lavorato in diversi importanti ospedali all’estero come chirurgo del trapianto cuore-polmone. Dal 1989 al 1994 ha lavorato come chirurgo presso il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) in varie zone di conflitto: Pakistan, Etiopia, Perù, Afghanistan, Somalia e Bosnia.



Strada, insieme alla moglie e a un gruppo di colleghi, ha fondato EMERGENCY nel 1994, fondando la sua sede a Milano. Da allora Emergency ha curato più di 10 milioni di pazienti. Il primo progetto di Gino sotto la bandiera di EMERGENCY ha avuto sede in Ruanda durante il genocidio ruandese nel 1994, e ha seguito questo lancio di progetti in Iraq, Cambogia, Eritrea e Afghanistan.

È salito alla fama per aver fondato nel 1994 a Milano con la sua prima moglie, Teresa Sarti, Emergency, un’associazione umanitaria che aiuta i civili vittime delle guerre, con cui ha costruito ospedali e luoghi di pronto soccorso in 18 paesi periferici del mondo, curando 11 milioni di persone.

Autore di diversi libri che divennero best seller – tra cui Buskashí, viaggio in guerra, in cui raccontò la sua esperienza come unico testimone occidentale della guerra in Afghanistan dopo l’11 settembre, e Pappagalli Verdi, che racconta la sua straordinaria vita di chirurgo di guerra -, Strada era una di quelle figure che di solito dividono le acque.

Era molto amato, ma anche odiato. È stato nominato per il Premio Nobel per la pace ed è stato una voce molto presente nei dibattiti televisivi che si infastidiva per essere così frontale e aver detto verità incomportabili.

Chiunque abbia scritto questo articolo ha incontrato uno degli ospedali che Strada ha costruito a Kabul. E non dimenticherà mai quando lo incontrerà come persona in Iraq nell’aprile 2003, pochi giorni dopo la caduta di Baghdad. In quel momento di caos assoluto, in cui si è verificato un drammatico incidente a seguito del quale avevo bisogno di qualcuno che mi accompagnasse a Ramadi – uno degli angoli del temibile triangolo sunnita – perché credevo che un collega argentino, Verónica Cabrera, fosse ancora vivo lì, sono andato da lui, che si stava fermando all’ambasciata italiana a Baghdad, all’epoca senza autorità.

Strada a Kabul, dove ha vissuto per sette anni

Dopo aver ricevuto un totale rifiuto di aiuto da parte di alcuni importanti interlocutori, tra cui la Croce Rossa Internazionale, che ha spiegato che era troppo pericoloso andare a Ramadi, una zona di guerra, Gino Strada è stato l’unico che ha subito deciso di aiutare, senza nemmeno pensarci. Quando, insieme al collega Gustavo Sierra, di Clarín, gli abbiamo spiegato la situazione, ha immediatamente preso la sua valigetta medica, le medicine, il telefono satellitare, è entrato nel suo furgone bianco con il logo emergency rosso, e siamo partiti rapidamente per Ramadi. Non si trattava di pensare ai rischi, ma di salvare una vita umana.

Mentre il destino alla fine voleva che trovassimo Veronica Cabrera già morta nell’obitorio dell’ospedale di Ramadi, il gesto di Strada – che ha subito notato che eravamo in territorio ostile e ha consigliato di tornare rapidamente a fumare e ha rovinato Baghdad – riflette che tipo di persona era.

La morte a sorpresa di Strada, il cui lavoro era noto anche a molti bambini delle scuole primarie e secondarie italiane che visitava per raccontare loro l’orrore delle guerre, causò molto dolore. “Ha sempre trascorso la sua vita per conto degli ultimi, operando con professionalità, coraggio e umanità nelle aree più difficili del mondo. L’associazione Emergency, fondata insieme alla moglie Teresa, rappresenta la sua eredità morale e professionale”, ha detto il premier italiano Mario Draghi, che dopo aver appreso “con tristezza” della notizia della sua morte, ha inviato le condoglianze del governo alla figlia Cecilia e ad altri collaboratori dell’associazione umanitaria.

Proprio questo venerdì il quotidiano La Stampa ha pubblicato un ultimo articolo di Strada sulla terribile situazione in Afghanistan, con i talebani che stanno per controllare l’intero Paese. Con molta amarezza e conoscenza dei fatti -ha vissuto sette anni in Afghanistan-, ha ricordato che 20 anni fa era una delle voci che uscivano dal coro e avvertì che l’invasione del paese da parte di una coalizione militare internazionale, dopo l’attacco dell’11 settembre alle Torri Gemelle, sarebbe stata “un disastro per tutti”.

“Oggi il risultato di quell’aggressione è davanti agli occhi: un fallimento da ogni punto di vista”, ha denunciato, indignato. Ha sottolineato che in questi 20 anni ci sono stati più di 241.000 morti e cinque milioni di rifugiati, tra cui sfollati interni e richiedenti asilo. E ha ritenuto che se le centinaia di miliardi di dollari che hanno finanziato questa avventura militare fallita, che ha arricchito i produttori di armi, fossero stati usati seriamente per l’Afghanistan, il paese, che viene distrutto, “sarebbe una grande Svizzera”.

Ci sono vite splendide, vissute inseguendo i propri valori, le proprie convinzioni più profonde, sapendo costruire comunità e sapendo restare soli, quando serve. Vite consacrate all’imperativo morale di dire ciò in cui si crede, non ciò che conviene dire. Ci sono vite splendide, vissute trasformando, con la fatica di un artigiano, le parole che ti ronzano tra il cervello e la testa in luoghi, strumenti, cose che mutano la vita degli altri, realizzando la tua.

Gino Strada ha vissuto una di queste vite bellissime, piene di senso.

Ha sofferto come pochi, nella sua vita personale e nella sua esperienza di medico e di volontario. Ha conosciuto la morte di chi amava ed era parte della sua vita e quella di chi non conosceva, perché arrivava con il viso sfigurato dall’esplosione di una mina. Ha sofferto per loro, perché una vita bellissima è spesso una vita di sofferenza per gli altri. Gino è stato dalla parte degli ultimi, sempre. I «dannati della terra» avevano in lui un difensore strenuo e coraggioso. Più erano soli al mondo, più erano dimenticati e più Gino si occupava di loro, cercava di alleviare le loro sofferenze, la loro solitudine.

Ma non era un santo contemporaneo. Era un uomo contemporaneo. Qualcuno che sa che l’esistenza è una dimensione nella quale vi è una comunità di destino, una relazione, come un filo invisibile, che lega, sempre e comunque, gli esseri umani tra loro. Agiva spinto da forti motivazioni civili, sociali, politiche. Non era un predicatore. Era un combattente per la pace, un ossimoro che in lui trovava un senso compiuto. Qualcuno si lamentava della radicalità di certe sue posizioni. Provate voi a essere moderati in una corsia di un reparto ospedaliero nel deserto in cui arrivano bambini con il ventre squarciato da una bomba, o contemplando, in Siria o in Afghanistan, il cinismo dell’Occidente che è capace, al contempo, di esportare democrazia sulla canna di un fucile e di abbandonare, come accade a Kabul, intere popolazioni al dominio della violenza e della intolleranza. Gino era per la pace, sempre e ovunque, sempre e comunque. Lo era non solo con le parole, spesso ruvide, ma con la fatica di chi ha fatto vivere una delle più importanti organizzazioni del volontariato come Emergency. Di radicalità veniva accusato anche Padre Alex Zanotelli. Ma chi lo faceva non era mai stato nell’inferno di Korogocho o nelle discariche dove i bambini si nutrono di rifiuti e di droga artigianale.

E i riformisti in particolare dovrebbero sapere che, se vogliono cambiare le cose del mondo, con la radicalità e il conflitto devono fare i conti, devono sforzarsi sempre di ascoltare, capire, tradurre in programmi e decisioni spinte che salgono dalla voce di chi la sofferenza la conosce e la vive. Non si difende l’idea di una società multietnica se non si difendono i diritti di chi rischia di annegare in mare, se non si garantisce a chi è nato qui di essere italiano. Non si può parlare di pace se ricchezza e povertà sono così iniquamente distribuite.

Ai governi che ne abbiano la sensibilità la capacità di individuare le soluzioni che assicurano la rimozione delle ingiustizie. Ma ascoltando sempre la voce di chi condivide quelle sofferenze, le vive sulla propria pelle, le rappresenta con la necessaria forza.

Con Gino si poteva non essere talvolta d’accordo, ovviamente. Ma era un grande uomo, al quale ho voluto bene. Da oggi, si deve sapere, i poveri, gli emarginati, i «dannati della terra» sono più soli. Chi lo ha stimato e apprezzato assuma ora il suo punto di vista non come la bizza di un uomo inquieto ma come lo stimolo a fare in modo che radicalità e riforme concrete non siano mai due sorelle separate.

E che sempre, al centro, ci siano i diritti dei più deboli.



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