La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha rotto il silenzio sulla crisi in corso nella Striscia di Gaza, esprimendo una posizione generale durante il premier time al Senato. Le sue dichiarazioni si concentrano sull’importanza di lavorare per una cessazione permanente delle ostilità, sottolineando il ruolo cruciale dei Paesi arabi nel raggiungimento di una soluzione duratura. “Continuiamo a lavorare per la fine permanente delle ostilità. Siamo attenti e appoggiamo il lavoro che i Paesi arabi stanno portando avanti. Credo che i Paesi arabi siano la chiave di volta nella soluzione permanente del conflitto. C’è un piano di ricostruzione, che questi Paesi hanno portato avanti a Gaza, dal mio punto di vista credibile, anche per tracciare un quadro regionale di pace e sicurezza: quadro che, chiaramente, lo ribadisco, a nostro avviso deve includere anche la prospettiva dei due Stati”, ha dichiarato.
Tuttavia, queste parole arrivano in un momento in cui la situazione nella Striscia di Gaza è drammatica. Le scorte alimentari sono praticamente esaurite, le infrastrutture energetiche sono al collasso e gli attacchi da parte dell’esercito israeliano continuano senza sosta. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato un piano per l’occupazione a lungo termine di ampie aree della Striscia, suscitando preoccupazioni a livello internazionale.
La risposta italiana alla crisi è stata giudicata da molti come insufficiente e priva di concretezza, soprattutto considerando l’urgenza della situazione. La posizione della presidente Meloni sembra allinearsi con quella degli Stati Uniti, guidati da Donald Trump, lasciando intendere una mancanza di autonomia nella politica estera italiana. Questo atteggiamento è stato interpretato da alcuni osservatori come una sorta di tacita approvazione delle azioni israeliane.
Secondo fonti israeliane, l’esercito sta pianificando la creazione di nuove “zone sterili” all’interno della Striscia di Gaza, simili a quella già esistente a Rafah. Queste aree sarebbero destinate a fungere da cuscinetto tra il territorio palestinese e il confine israeliano, oltre a separare i civili dai combattenti. Gli aiuti umanitari, una volta autorizzati, verranno distribuiti esclusivamente all’interno di queste zone controllate e nel corridoio di Morag, sotto supervisione israeliana. Solo le persone che supereranno i controlli militari potranno accedere ai beni di prima necessità come cibo e acqua.
Questa strategia è stata duramente criticata da esperti e figure locali. Yamen Abu Suleiman, direttore della protezione civile di Khan Yunis, ha definito il piano “folle e inumano”. Secondo lui, “la popolazione viene letteralmente deportata in un’altra zona”. Inoltre, ha sollevato dubbi sui criteri utilizzati per i controlli militari e sulle conseguenze per chi non li supererà: “E chi non li passerà, magari perché ha parenti che hanno appoggiato Hamas, cosa farà? Sarà condannato?”.
Anche la giornalista Rula Jebreal, scrivendo su La Stampa, ha evidenziato le implicazioni legali e morali di tali azioni, parlando di una potenziale violazione del diritto internazionale. Secondo lei, “la determinazione di Israele a demolire il diritto internazionale non minaccia soltanto Gaza: rischia di travolgere anche i fondamenti di giustizia e di libertà su cui dovrebbe reggersi”.
La situazione rimane critica e complessa, con la comunità internazionale divisa su come affrontare la crisi. Mentre alcuni Paesi sostengono una soluzione diplomatica basata sulla prospettiva dei due Stati, altri sembrano privilegiare misure più drastiche per garantire la sicurezza nella regione. Nel frattempo, le condizioni umanitarie nella Striscia di Gaza continuano a peggiorare, aumentando l’urgenza di un intervento concreto e coordinato.
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