Un crollo verticale, da una delle cariche istituzionali più alte dello Stato alla difficoltà di garantirsi persino un pasto quotidiano. È la parabola di Irene Pivetti, ex presidente della Camera, che in un’intervista rilasciata a Hoara Borselli per il Giornale ha raccontato la propria discesa personale e finanziaria, seguita alle vicende giudiziarie che l’hanno coinvolta.
Condannata a quattro anni per evasione fiscale e autoriciclaggio nell’inchiesta sulle presunte finte vendite di Ferrari in Cina, e con un altro procedimento in corso sulla compravendita di mascherine, Pivetti ha descritto come la sua vita sia stata stravolta al punto da ricorrere alla Caritas per poter mangiare. “Mi hanno distrutto l’immagine, tolto la credibilità che mi ero costruita e annientata economicamente. Sequestrati tutti i conti correnti. Non mi vergogno a dire che non avevo i soldi per mangiare. Non sapevo come andare avanti. Non nego di essere andata a ritirare i pacchi con cibo in scatola e lattine alla Caritas di San Vincenzo”, ha spiegato.
Nell’intervista, l’ex presidente della Camera ha raccontato di aver ritrovato un sostegno in un gruppo di lavoro particolare: una cooperativa di ex detenuti. “Poi ho trovato una cooperativa di ex detenuti, la Mac Servizi, in uno scantinato. Mi sono messa a lavorare per loro. Inizialmente facevo le pulizie, poi mettevo in ordine. Ho iniziato come volontaria, e poi mi hanno riconosciuto uno stipendio di mille euro al mese. Quando l’ho ricevuto non potevo crederci… Finalmente avevo i soldi per mangiare”.
Colpisce il contrasto tra le cifre contestate dai magistrati e la condizione di indigenza raccontata. Secondo le indagini sulla cosiddetta “vicenda Ferrari”, Pivetti e gli altri soci avrebbero gestito ricavi per “circa 8 milioni” di euro, derivanti dalla vendita di auto di lusso, ricavi sottratti alla tassazione italiana attraverso società estere. Da quel patrimonio, sostengono i giudici, sarebbe poi derivata la condanna per evasione fiscale e autoriciclaggio.
Nell’intervista, però, Pivetti continua a dichiararsi innocente: “Sono passati cinque anni. So di non avere fatto assolutamente niente di male”. E aggiunge un giudizio severo sul sistema giudiziario italiano: “Ho scoperto, vivendoci dentro, che la macchina giudiziaria ciclicamente è una macelleria. È più predisposta a fare sacrifici umani che a cercare la verità”.
Il racconto si sofferma anche sulle paure legate al futuro giudiziario. Alla domanda se abbia mai temuto il carcere, Pivetti ha risposto: “Vedo due possibilità: una, potrei finire dentro. Ingiustamente. E devo arrivarci preparata. La seconda possibilità è che il processo non finisca mai. Potrebbe durare più della mia vita biologica. E allora ho deciso di non aspettare per tornare alla vita. Devo vivere oggi”.
Nessun riferimento, nell’intervista, al rapporto con la sorella Veronica Pivetti, attrice nota e impegnata in attività benefiche, la quale non avrebbe offerto un sostegno per evitare il ricorso alla mensa dei poveri. Un dettaglio che sottolinea l’isolamento vissuto dall’ex presidente della Camera durante le difficoltà economiche.
La parabola di Irene Pivetti, dalla guida della Camera dei Deputati negli anni ’90 al lavoro come addetta alle pulizie in una cooperativa, passando per i pacchi alimentari della Caritas, resta uno dei casi più emblematici di caduta personale e politica. Tra condanne già pronunciate e processi ancora in corso, la vicenda continua a intrecciare dimensioni pubbliche e private, con un impatto che la stessa protagonista descrive come devastante: “Mi hanno distrutto l’immagine”.
Oggi Pivetti cerca di ricostruire la propria quotidianità con un lavoro modesto ma stabile e con la determinazione a non lasciarsi paralizzare dai processi. La sua testimonianza, tra memoria personale e difesa pubblica, mette in luce non solo la sua vicenda giudiziaria, ma anche la fragilità di un percorso umano passato dall’apice istituzionale alla precarietà.



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