Il recente incontro dei ministri degli Esteri a Copenaghen ha messo in evidenza, ancora una volta, le difficoltà dell’Unione europea nel trovare una linea comune sui principali scenari di crisi internazionale. La riunione, che avrebbe dovuto definire un indirizzo chiaro sia sul conflitto in Ucraina sia sulla guerra a Gaza, si è conclusa con un nulla di fatto.
Sul fronte ucraino, la discussione verteva sulla necessità di ridefinire la strategia europea dopo oltre due anni di guerra. Nonostante i segnali di stallo militare, i Ventisette hanno scelto di mantenere la linea di sostegno a Kiev, confermando ulteriori pacchetti di aiuti e nuove misure restrittive nei confronti della Russia. Non si è quindi aperto alcuno spazio per ipotesi di compromesso territoriale con Mosca, che per alcuni osservatori avrebbe potuto rappresentare un primo passo verso la fine del conflitto.
Anche la questione di Gaza ha generato divisioni significative. Diverse delegazioni avevano proposto l’introduzione di un embargo sulle armi a Israele e l’avvio di misure commerciali in risposta all’offensiva militare in corso. Tuttavia, l’opposizione di Ungheria e Germania ha bloccato qualsiasi decisione. La prima ministra estone Kaja Kallas ha dichiarato che «l’opposizione di Budapest rende impossibile procedere con l’adozione di nuove sanzioni». Una posizione che ha alimentato polemiche, visto che l’Ungheria è contraria anche ai pacchetti restrittivi contro la Russia, senza che questo abbia impedito all’Ue di vararne 18 e di annunciare il 19°.
In questo contesto, il premier ungherese Viktor Orbán è stato indicato da più parti come principale responsabile dello stallo, anche se diversi analisti hanno sottolineato come la sua opposizione rappresenti più un pretesto per giustificare l’incapacità di trovare un accordo politico. In effetti, altri Stati membri, tra cui la Germania, hanno espresso perplessità riguardo all’opportunità di introdurre nuove sanzioni contro Israele. Il cancelliere Friedrich Merz, nei giorni scorsi, aveva ribadito che «Netanyahu fa il lavoro sporco per tutti noi», suscitando critiche da parte di numerose organizzazioni internazionali.
La riunione di Copenaghen avrebbe dovuto segnare un momento di svolta, ma ha invece evidenziato una spaccatura profonda tra chi chiede un maggiore impegno dell’Europa sul piano diplomatico e chi ritiene prioritario il mantenimento della linea già adottata. Alcuni osservatori hanno sottolineato che, in mancanza di un accordo comune, i Paesi più influenti dell’Unione — Germania, Italia, Francia, Spagna e Polonia — avrebbero potuto procedere autonomamente adottando misure individuali, come già avvenuto in passato con la cosiddetta “coalizione dei volenterosi” contro Mosca.
Il dibattito interno all’Ue si concentra ora sul superamento della regola dell’unanimità nelle decisioni di politica estera, considerata da molti un ostacolo insormontabile per la definizione di una strategia condivisa. L’ipotesi, tuttavia, incontra forti resistenze da parte di vari Stati membri, che temono una perdita di sovranità.
A livello politico, la mancanza di risultati concreti rischia di minare ulteriormente la credibilità dell’Unione europea. Con la guerra in Ucraina che non mostra segnali di conclusione e il conflitto a Gaza che continua a provocare vittime civili, l’Europa appare divisa e incapace di incidere in maniera significativa sugli equilibri internazionali.
La sessione straordinaria di Copenaghen sarà ricordata, dunque, come l’ennesima occasione mancata per rafforzare il ruolo dell’Ue nella scena geopolitica globale. Le prossime settimane diranno se i leader europei saranno in grado di superare le divisioni interne e proporre un approccio più incisivo, oppure se la linea dell’immobilismo resterà dominante.



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