All’inizio era qualcosa di piccolo.
Piccoli segnali: compiti stropicciati, la merenda dimenticata, lo sguardo perso fuori dalla finestra durante la cena, come se fosse altrove. Pensavo fosse solo una fase. I bambini si distraggono. Hanno molta fantasia.
Ma poi ha smesso del tutto di voler andare a scuola. Piangeva la mattina. Diceva di avere mal di pancia, anche se il medico non trovava nulla.
È lì che ho cominciato a preoccuparmi davvero.
Ho scritto una mail alla sua maestra, la signora Halston, pensando che mi avrebbe detto che era solo agitazione primaverile o forse qualche problema con un compagno. Ma invece mi ha risposto chiedendo se potevamo vederci di persona: “Niente di urgente”, ha scritto, “ma credo sia importante.”
Così sono andata, nervosa da morire, aspettandomi il peggio.
E ciò che accadde mi colse completamente alla sprovvista.
La maestra Halston mi accolse con un sorriso gentile, ma nei suoi occhi c’era una tristezza che non riuscivo a spiegare. Ci sedemmo nella sua aula piccola e accogliente, ancora intrisa del profumo di pastelli e matite appena temperate. Mi fece cenno di accomodarmi, e io lo feci, con le mani che tremavano in grembo.
«Grazie per essere venuta,» iniziò con voce calma ma carica di pensieri. «Ho notato qualcosa, nelle ultime settimane, che penso possa contribuire al comportamento di Lily a scuola. Non voglio trarre conclusioni affrettate, ma credo sia giusto parlarne.»
Mi irrigidii, temendo il peggio. Era vittima di bullismo? C’era qualcosa che mi era sfuggito?
«Vede,» continuò, «Lily è diventata molto silenziosa in classe, più del solito. Distratta durante le lezioni, e disegna molto. So che è sempre stata una bambina creativa, ma ciò che mi ha colpito è la natura dei suoi disegni.»
Il cuore mi batté più forte. Lily ha sempre avuto la passione per il disegno, ma c’era qualcosa nel tono della maestra che mi metteva in allarme.
«Le dispiace se le mostro uno dei suoi disegni? Forse così sarà tutto più chiaro.»
Annuii, trattenendo il fiato mentre la maestra apriva una cartellina e ne estraeva un foglio. Me lo porse, e il mio battito accelerò osservando l’immagine.
Era un disegno di una figura grande e scura che sovrastava una più piccola: Lily. I soliti colori vivaci erano assenti, sostituiti da toni spenti e freddi. La figura scura aveva occhi vuoti e minacciosi, tracciata con linee taglienti. La figura più piccola era rannicchiata, con le mani sul volto, disegnata in sfumature di blu.
Quel disegno mi inquietò. Era evidente che non fosse stato creato a caso. C’era un’emozione profonda dietro, impossibile da ignorare.
La maestra notò la mia preoccupazione e aggiunse rapidamente:
«Non voglio saltare a conclusioni, ma credo che questo possa essere il modo di Lily per esprimere qualcosa che non riesce a dire. Ho visto altri bambini usare l’arte per comunicare sentimenti che neppure loro comprendono del tutto.»
Rimasi lì, con la mente che correva. La mia bambina aveva paura di qualcosa? C’era forse una situazione che non riusciva a raccontarmi?
«Non so a cosa possa essere dovuto,» riuscii infine a dire con voce rotta. «Pensa che possa essere legato a qualcosa che accade a casa? Abbiamo avuto qualche difficoltà, ma nulla che mi sembrasse così grave.»
La maestra esitò un attimo, scegliendo con cura le parole.
«Non lo so. Ma qualunque cosa sia, la sta influenzando in modi che non riesco a spiegare. Credo sia importante parlarle, con delicatezza. Farla sentire al sicuro.»
Tornai a casa più inquieta che mai. Come potevo aiutare mia figlia se non capivo cosa stava succedendo?
Quella sera, dopo cena, ci sedemmo io e Lily sul divano. Era rannicchiata, con lo sguardo perso.
Presi un respiro profondo. «Tesoro,» dissi piano, «so che qualcosa ti preoccupa. E voglio che tu sappia che puoi parlarne. Qualunque cosa sia, sono qui.»
Non rispose subito, ma dopo un lungo silenzio mi guardò. I suoi occhi erano pieni di incertezza.
«Non mi piacciono i sogni,» disse a voce bassa.
Il cuore mi si fermò. «Che sogni, amore?» chiesi.
«Quelli brutti,» sussurrò. «C’è sempre quell’uomo. Mi guarda. E non riesco a farlo andare via.»
Sentii un brivido lungo la schiena.
«Che uomo? Com’è fatto?»
«È molto grande… sta sempre in un angolo della mia stanza. Gli occhi sono scuri. Anche quando li chiudo… lui è ancora lì. Non voglio che torni.»
Cercai di mantenere la voce calma.
«Tesoro, quei sogni non possono farti del male. Ma sono contenta che me lo hai detto. Prometto che scopriremo insieme cosa fare.»
Quella notte, dopo averla messa a letto, passai ore a cercare risposte. Incubi infantili, disturbi del sonno, segnali di traumi… ma nulla sembrava spiegare tutto ciò. Quel terrore era reale per lei.
La mattina dopo, in soffitta, trovai qualcosa di inaspettato: un vecchio diario. Era di mia madre. Incuriosita, iniziai a sfogliarlo.
Scoprii una verità sconvolgente sul mio passato: anche lei, da bambina, era tormentata da una figura simile nei sogni. Le descrizioni erano quasi identiche a quelle di Lily.
Fu uno shock. Quella paura non era nata dal nulla. Era un’eredità, un trauma trasmesso. Il “mostro” non era solo frutto della fantasia: era una manifestazione profonda di una paura familiare, tramandata inconsapevolmente.
Quella consapevolezza fu tanto spaventosa quanto liberatoria. Non era colpa di Lily. Non era qualcosa che avrei potuto evitare prima. Ma ora sapevo. E potevo aiutarla.
Quel pomeriggio le mostrai il diario.
«Non sei sola,» le dissi. «Anche la nonna ha vissuto la stessa cosa. Ma non devi affrontarlo da sola. Ci sono io.»
E così abbiamo iniziato il nostro percorso. Non è stato facile, ma con la terapia, esercizi di rilassamento, e piccoli rituali prima di dormire, il mostro nei sogni ha perso forza.
E piano piano, è svanito.
A volte, le paure non sono casuali. Hanno radici profonde. Ma capirle può fare tutta la differenza.
E non dobbiamo affrontarle da soli. Condividere il peso lo rende più leggero.
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