Mi chiamo Laura e ho 41 anni. Se qualcuno mi avesse detto, il giorno del mio matrimonio, che avrei passato notti in bianco a contare i soldi rimasti nel portafoglio e a piangere in silenzio per la paura del futuro, non ci avrei mai creduto. Io e Marco ci siamo conosciuti all’università: lui era brillante, pieno di sogni, sempre pronto a farmi ridere. Ci siamo innamorati in fretta, e altrettanto in fretta abbiamo deciso di costruire una vita insieme.
I primi anni sono stati felici. Lavoravamo entrambi, ci siamo comprati una piccola casa e abbiamo avuto la nostra bambina, Giulia. Marco era un papà presente, affettuoso. Non ci mancava nulla, anche se non navigavamo nell’oro. Ogni tanto comprava un gratta e vinci, magari il sabato mattina al bar, mentre prendeva il caffè. Era un gesto innocente, quasi un rito. Ridevamo quando non vinceva nulla, e quando capitava una piccola vincita, ci concedevamo una pizza in più.
Poi, qualcosa è cambiato. Non so dire esattamente quando. Forse quando Marco ha avuto problemi al lavoro, o quando ha iniziato a sentirsi insoddisfatto. Ha cominciato a comprare più biglietti, a nascondere le ricevute, a mentire su piccole cose. All’inizio non ci ho fatto caso. Pensavo fosse solo stress, un modo per distrarsi. Ma i soldi iniziavano a sparire. Le bollette si accumulavano, la carta di credito era sempre più vicina al limite. Quando gli chiedevo spiegazioni, si arrabbiava. Diceva che esageravo, che era solo un passatempo.
La situazione è peggiorata in fretta. Marco usciva la sera con la scusa di “prendere una boccata d’aria”, ma tornava sempre più tardi, spesso nervoso e silenzioso. Ho iniziato a trovare biglietti grattati ovunque: nei cassetti, in macchina, persino tra i libri di Giulia. Un giorno ho trovato una scatola piena di gratta e vinci usati nascosta in garage. Mi sono sentita gelare il sangue. Ho capito che non era più un gioco.
Ho provato a parlarne con lui, con calma. Gli ho detto che ero preoccupata, che avevamo bisogno di quei soldi per la casa, per nostra figlia. Lui si è chiuso a riccio, mi ha accusata di non capirlo, di voler controllare ogni sua mossa. Ho iniziato a sentirmi in colpa, a chiedermi se stessi sbagliando qualcosa. Ma la verità era che Marco non riusciva più a fermarsi.
Le conseguenze sono arrivate presto. Abbiamo saltato il pagamento di alcune bollette, abbiamo dovuto rinunciare alle vacanze, persino la spesa settimanale era diventata un problema. Ho iniziato a lavorare di più, a fare turni extra, ma non bastava mai. Ogni volta che riuscivo a mettere da parte qualcosa, quei soldi sparivano. Marco era sempre più distante, nervoso, a volte anche aggressivo. La nostra casa era diventata un campo di battaglia silenzioso, dove nessuno parlava davvero.
La cosa peggiore era la solitudine. Non potevo parlarne con nessuno: mi vergognavo, avevo paura del giudizio degli altri. I miei genitori mi chiedevano perché fossi sempre stanca, perché Marco non venisse più alle cene di famiglia. Le amiche mi invitavano a uscire, ma io inventavo scuse. Non volevo che nessuno sapesse cosa stava succedendo.
Una sera, dopo l’ennesima discussione, ho trovato il coraggio di cercare aiuto. Ho chiamato un’associazione che si occupa di dipendenza dal gioco d’azzardo. Mi hanno ascoltata, senza giudicarmi. Mi hanno spiegato che non ero sola, che quello che stavo vivendo era purtroppo molto comune. Ho iniziato un percorso di sostegno psicologico, prima da sola, poi con Marco. Non è stato facile convincerlo: all’inizio negava tutto, diceva che poteva smettere quando voleva. Ma poi, vedendo la sofferenza nei miei occhi e in quelli di nostra figlia, ha accettato di provare.
Il percorso è stato lungo e pieno di ostacoli. Marco ha avuto ricadute, ci sono stati momenti in cui ho pensato di mollare tutto. Ma piano piano, con l’aiuto degli specialisti e il sostegno della famiglia, le cose sono migliorate. Abbiamo imparato a parlare di più, a sostenerci a vicenda. Marco sta ancora lottando, ogni giorno, ma ora sa che può chiedere aiuto. Io ho imparato a non sentirmi in colpa, a non portare tutto il peso sulle mie spalle.
Se c’è una cosa che questa esperienza mi ha insegnato, è che nessuno deve affrontare tutto da solo. Chiedere aiuto non è una debolezza, ma un atto di coraggio. E se qualcuno che sta leggendo questa storia si riconosce nelle mie parole, voglio dirgli che c’è sempre una via d’uscita, anche quando tutto sembra perduto.
Oggi la nostra famiglia non è perfetta, ma stiamo ricostruendo la fiducia, un giorno alla volta. E io sono orgogliosa di non aver smesso di lottare, per me stessa e per chi amo.
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