Bruxelles è scossa, Roma esita. Non sarà Ursula von der Leyen a essere sostituita a settembre, ma potrebbe essere l’accordo sui dazi al 15% firmato con gli Stati Uniti a essere messo in discussione. Un accordo fragile, divisivo e debole in una fase in cui l’Europa appare incapace di parlare con una sola voce.
La notizia, seppur non ufficiale, circola insistente tra Palazzo Chigi e i vertici europei: l’intesa è traballante. E con essa, la credibilità di chi l’ha siglata.
Il dato politico è chiaro: von der Leyen ha ceduto a Trump, e perfino i più cauti, nei corridoi di Bruxelles, lo ammettono. Ma la questione più preoccupante è l’assenza di un’alternativa politica credibile. Il risultato? Una rivolta trasversale.
Macron e Orbán – il liberalista e il sovranista – sono furiosi. In Germania, il cancelliere Friedrich Merz, pur appartenendo allo stesso partito della presidente della Commissione, si giustifica: “Poteva andare peggio”. Nel frattempo, l’industria tedesca è in rivolta e l’Spd minaccia una crisi di governo. Il fantasma dell’AfD al 40% agita più di una cancelleria.
E in Italia? La premier Giorgia Meloni ostenta calma. Ma nel centrodestra, i malumori sono evidenti. La Lega attacca von der Leyen ma evita di criticare Trump: il vero bersaglio è il Green Deal e l’agenda ambientale di Bruxelles. Forza Italia, al contrario, è nel pieno dell’imbarazzo: Antonio Tajani è consapevole dei danni che l’accordo può arrecare alle imprese italiane, ma non può esprimerlo apertamente.
L’opposizione critica duramente l’accordo. Elly Schlein, intervistata da Tommaso Labate durante il Magna Graecia Film Festival, afferma: “Si tratta di una resa a Trump. L’accordo prevede dazi generalizzati al 15% senza alcuna reciprocità. L’impatto sarà drammatico. La responsabilità è anche dei nazionalisti europei amici di Trump. Compreso il nostro governo”.
La successione di Ursula von der Leyen rimane incerta. Non emerge un candidato credibile. Manfred Weber è considerato troppo a destra e incontrerebbe l’opposizione di socialisti e verdi. La candidatura di Mario Draghi suscita preoccupazione per la sua forte personalità e indipendenza. Inoltre, non sono previste elezioni anticipate per il Parlamento Ue.
Si prospetta quindi la permanenza di Ursula von der Leyen, seppur delegittimata. Si ipotizza che il Parlamento boccerà l’intesa, il Consiglio proverà a commissariarla, con il rischio di una guerra commerciale con Washington.
La Francia preme per l’introduzione di una tassazione sui colossi web americani. L’Italia e la Germania sono titubanti: evitano lo scontro frontale, ma riconoscono l’insostenibilità dell’accordo con Trump.
A Roma, i sondaggi destano preoccupazione nella maggioranza. L’accordo con Trump rischia di rivelarsi politicamente controproducente. La Presidente del Consiglio Meloni sta già registrando malcontento per la sua posizione in materia di riarmo, che in un periodo di crisi sociale riscuote scarso consenso. Questo ulteriore elemento potrebbe condurre a risultati elettorali sfavorevoli, con il centrodestra a rischio di perdere consenso nei sondaggi e nelle prossime elezioni.
Tuttavia, la questione è più complessa: non è solo il centrodestra a essere in difficoltà e non è solo l’accordo a essere a rischio. È l’intera struttura politica dell’Unione Europea a essere messa in discussione. Il pericolo maggiore non risiede nei dazi. Il rischio è che ogni Stato membro inizi a trattare autonomamente con Washington, aggirando Bruxelles. Sarebbe la fine dell’unità europea. O forse, l’inizio della sua fine.
Add comment