Non mi ero mai considerata una donna facilmente suggestionabile. Sono il tipo che spegne la luce senza pensarci due volte, che dorme da sola in casa durante i temporali, che ride guardando film horror. Ma quello che è successo nella casa dei miei genitori… quello non riesco ancora a spiegarlo.
Avevo trentotto anni quando mia madre morì. Mio padre era scomparso da tempo, una morte improvvisa durante una trasferta di lavoro, lasciando mia madre sola in quella villa enorme alle porte di Montecorvino, una cittadina della campagna salernitana dove il tempo sembrava essersi fermato negli anni ‘80.
Io e mia sorella Luisa avevamo lasciato quel posto da tempo, e ci eravamo costruite due vite normali, banali quasi. Ma quando mamma morì, improvvisamente e senza preavviso, io—Claudia—dovetti tornare a occuparmi della casa. Luisa si trovava all’estero per lavoro e chiese di occuparmene io, almeno fino al funerale.
Ricordo ancora l’odore.
Aprii la porta con la vecchia chiave arrugginita che portavo sempre nel portachiavi, più per nostalgia che per necessità. La casa sapeva di umido, di chiuso, di legno impregnato di pioggia e tempo. E qualcosa di più. Un vago sentore metallico, simile al sangue o alla ruggine.
Non era una casa piccola. Al piano superiore, cinque stanze da letto, due bagni. Al piano terra, un grande soggiorno, la cucina, lo studio, la veranda. Eppure… la prima notte, mentre giravo per casa cercando una coperta in più, mi accorsi di qualcosa che mi fece gelare il sangue.
Una porta.
Una porta in fondo al corridoio del piano superiore, di fronte alla vecchia camera di mia madre. Non era mai stata lì.
Lo so cosa pensi. “Ti sbagli.” “Era chiusa, l’hai sempre ignorata.”
Ma no. Quella porta non era mai esistita. Nemmeno quando abitavamo lì da bambine. Nemmeno quando giocavamo a nascondino con papà.
Mi avvicinai. Era una porta bianca, semplice, con una maniglia d’ottone. Niente polvere, niente ragnatele. Come se qualcuno l’avesse pulita di recente.
Provai a girare la maniglia. Niente. Era chiusa.
Passai la notte sveglia, nel vecchio letto di mia infanzia, fissando il soffitto e riascoltando nella mente il clic sordo della maniglia che non cedeva.
Il giorno dopo chiamai Luisa.
«Ti ricordi se c’era una porta nuova in corridoio, davanti alla stanza di mamma?»
«Cosa? No, certo che no. È sempre stato muro lì. Perché?»
«C’è una porta. Bianca. Sembra nuova.»
«Avrai confuso le stanze. Magari è sempre stata lì.»
«No, Luisa. Non c’era.»
Ci fu un lungo silenzio dall’altra parte. Poi lei rise nervosamente.
«Magari la mamma ha fatto qualche lavoro di ristrutturazione. Una cabina armadio? Boh.»
Una cabina armadio. Già.
Quel pomeriggio, cercai la chiave.
Frugai ovunque. Nei cassetti della cucina, nelle scatole di latta, nella scrivania, persino tra le medicine in bagno. Niente. Ma trovai una cosa.
Un quaderno, dalla copertina nera, nascosto dietro un mobile nello studio. Era il diario di mia madre.
Non parlava molto della stanza, ma accennava qualcosa. Una frase mi gelò:
“Claudia non deve ricordare. Luisa non ha mai saputo. La stanza deve rimanere chiusa.”
Quel “Claudia non deve ricordare” mi rimase addosso per ore.
Ricordare cosa?
La seconda notte nella casa fu diversa.
Sentii dei passi nel corridoio. Lenti. Leggeri.
Mi alzai, uscìi dalla stanza e lo vidi: il battente della porta era leggermente aperto.
Mi avvicinai lentamente, sentendo il cuore battere nelle orecchie. Ogni passo sembrava un’esplosione sul pavimento scricchiolante. Misi una mano sulla porta e la spinsi piano.
All’interno c’era una stanza che non poteva esistere.
Era molto più grande di quanto lo spazio architettonico permettesse. Pareti bianche, pavimento di legno, una sola finestra cieca. Nessun mobile. Solo una sedia al centro, e sulle pareti… disegni.
Disegni infantili.
Volti stilizzati, come scarabocchi. Tutti uguali: un volto senza occhi, solo due cerchi vuoti. Un sorriso troppo largo. E sotto ogni disegno, la stessa firma: “C.”
Io.
Ricordo che la nausea mi salì in gola. Tornai indietro, chiusi la porta con forza e corsi in bagno a vomitare.
Il giorno dopo, presi la macchina e andai a trovare la signora Teresa, la vecchia vicina. Una donna che conosceva la nostra famiglia da sempre.
«Signora Teresa… posso chiederle qualcosa?»
Lei mi offrì un caffè e annuì.
«Si ricorda se c’era… una stanza in più a casa nostra? Una che non c’era prima?»
Lei impallidì. Lo vidi chiaramente. Appoggiò la tazzina con mano tremante.
«No, Claudia. Non ricordo nulla di simile.»
Fece una pausa.
«Ma tua madre, gli ultimi anni… parlava spesso da sola. Diceva che la casa aveva dei segreti. Una volta la sentii dire… “Claudia non deve entrare mai più lì.”»
Quella notte tornai. Non riuscivo a stare lontana. Aprii la porta.
La stanza sembrava più grande.
Al centro, ora c’erano due sedie.
E sopra una delle sedie, qualcosa: una foto. Io e Luisa da bambine. Ma sul mio volto… c’erano due fori neri disegnati a penna. Al posto degli occhi.
Scappai di nuovo. Ma questa volta non dormii. Passai ore a cercare vecchi documenti di famiglia. Trovai una cartella clinica con una scritta in stampatello:
“Claudia A. – Soggetto sottoposto a trattamento dissociativo infantile. Episodi di autoisolamento, disegni ricorrenti. Terapia interrotta a 10 anni.”
Mi mancò il fiato. Mi accasciai a terra, con le mani nei capelli.
Non ricordavo nulla. Nessuna terapia. Nessuna “stanza”.
Solo sogni. Sogni ricorrenti, da bambina. Una stanza bianca. Una sedia. Un volto che sorride senza occhi.
E Luisa che piangeva fuori dalla porta.
Quando lei tornò per il funerale, glielo dissi. Le raccontai tutto.
Non mi guardò nemmeno.
«Lo sapevo che sarebbe successo. Appena sei tornata lì…»
«Cosa sai, Luisa?»
«Non era una terapia. Era un esperimento. Mamma voleva… “chiudere” il trauma.»
«Quale trauma?»
Lei scoppiò a piangere.
«Avevi cinque anni quando hai… fatto male a me. A te stessa. Eri diversa. Vedevi cose. Disegnavi quella stanza ovunque. E una notte… una notte mamma ti trovò lì. Da sola. A parlare con qualcosa.»
«Con chi?» sussurrai.
Lei alzò gli occhi.
«Con te. Ma… un’altra te. Dicevi che quella era la vera Claudia. Che io dovevo andare via.»
La stanza è ancora lì. E ora è aperta. Sempre.
Ogni notte la sogno. Ogni giorno mi sento più stanca. Ogni specchio in casa riflette qualcosa che non fa parte di me.
Luisa se n’è andata. Non mi risponde più.
E ieri, entrando nella stanza… ho trovato un foglio per terra. Con una scritta, tracciata con la mia calligrafia da bambina:
“Finalmente siamo di nuovo sole.”
E stanotte…
Stanotte ho ricominciato a disegnare.
Solo volti.
Senza occhi.
Ma sempre con quel sorriso troppo largo.



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