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Non ero lì per immergermi — ma sono uscita con una maschera dell’ossigeno



Non avrei nemmeno dovuto far parte del gruppo.



Mio marito aveva prenotato il tour di immersioni per il nostro anniversario. Lui è l’amante del brivido, non io. Io ero lì più che altro per guardare, scattare foto, magari mettere i piedi in acqua. Ma quando siamo arrivati, uno degli istruttori ha scherzato: «Non si sa mai chi oggi finirà per sorprendere sé stesso».

Quella frase mi è rimasta impressa.

Non so cosa mi abbia spinto a farlo — forse il fatto che, per errore, c’era già una muta pronta con il mio nome. O forse il desiderio di non passare un altro anno lasciando che la paura decidesse al posto mio.

Così mi sono vestita.

All’inizio, tutto è andato bene: il briefing, le prove con la maschera, la discesa… tutto sembrava lento e sicuro. Ma a metà immersione, qualcosa è cambiato. Una pressione al petto. La vista che si restringeva. Le mani che non smettevano di tremare.

Il momento dopo, sentivo che mi stavano tirando su in fretta.

Il capo istruttore — Marc, credo si chiamasse — mi teneva un braccio intorno, parlando con voce calma vicino all’orecchio anche mentre io, dentro, stavo andando nel panico. «Va tutto bene. Ti abbiamo presa.»

Mi portarono fuori dall’acqua e nella stanza di primo soccorso. Mi misero una maschera dell’ossigeno ancora prima che potessi protestare.

Continuavo a dire che stavo bene, ma non mi credevano.

Marc rimase seduto accanto a me finché il respiro non si stabilizzò. Poi disse: «La gente pensa che il coraggio significhi restare calmi. Ma a volte vuol dire solo presentarsi».

Poi infilò la mano in tasca e mi porse qualcosa di piccolo, piegato.

Non ho ancora detto a mio marito cosa c’era scritto.

Era un biglietto. Semplice e breve, scritto con inchiostro blu: «Il coraggio non è fare le cose alla perfezione. È riprovare dopo aver fallito».

Rimasi a fissare quelle parole a lungo, anche dopo che Marc se n’era andato. Non mi sembravano una frase motivazionale qualunque, buttata lì per consolarmi: erano personali, come se le avesse scritte per sé stesso, tempo prima. E forse era così. Nel modo in cui si muoveva, in quel misto di sicurezza silenziosa e tracce di vecchie ferite, c’era la sensazione che anche lui fosse stato dov’ero io in quel momento. Spaventato. Incerto. Ma comunque disposto a provare.

Quando mio marito tornò dalla sua immersione, io ero seduta sul molo, a guardare l’oceano. Arrivò gocciolante e raggiante come un bambino a Natale. «Com’è andata? Ti è piaciuto, vero?»

Esitai. Una parte di me voleva raccontargli quanto ero stata terrorizzata, quanto fossi stata vicina a mollare. Ma invece, forzai un sorriso: «Sì… è stato… diverso».

Il suo sorriso vacillò appena, poi scrollò le spalle: «Beh, almeno ci hai provato! È più di quanto farebbe la maggior parte delle persone».

E in quel momento capii che non aveva idea. Nessun indizio di quanto fosse andata male o di quanto avessi lottato. Per un attimo pensai di dirgli tutto — l’attacco di panico, la maschera dell’ossigeno, quel pezzetto di carta che mi bruciava in tasca — ma qualcosa mi fermò. Forse l’orgoglio. O forse il fatto che, in fondo, capivo che ormai non si trattava più di lui. Ma di me.

Il resto del viaggio passò senza eventi particolari. Visitammo mercati locali, mangiammo pesce sotto fili di luci, e fingemmo di essere viaggiatori avventurosi invece di due suburbaniti un po’ impacciati che cercavano di ritrovare la scintilla dei primi anni insieme. Ma ogni notte, mentre mio marito russava piano accanto a me, ripensavo alle parole di Marc. Quelle frasi mi restavano in testa come una domanda senza risposta, finché non capii che non potevo più ignorarle.

Tornati a casa, la vita riprese il solito ritmo. Scadenze di lavoro. Bollette. Ceste del bucato piene. Eppure, tra il caos quotidiano, iniziai a fare piccoli cambiamenti. Invece di scorrere i social durante la pausa pranzo, mi iscrissi a un corso di yoga che avevo sempre evitato per timidezza. Quando una collega mi invitò al suo gruppo di corsa, dissi di sì — anche se non correvo dal liceo. Ogni passo era goffo e incerto, ma mi ripetevo le parole di Marc: Riprovare dopo aver fallito.

Una mattina di sabato decisi di affrontare la sfida più grande: imparare a nuotare bene. Da bambina avevo sempre evitato le piscine, convinta che sarei affondata come un sasso. Ma ora, con gli occhialini presi in prestito e la cuffia in testa, mi sentivo… pronta. Non senza paura, ma determinata.

L’istruttrice, una donna allegra di nome Rita, mi accolse con un sorriso: «Prima volta?»

«Più o meno,» ammisi. «So galleggiare. Ma non molto bene.»

Lei rise. «Non ti preoccupare. Tutti cominciano da qualche parte».

Per settimane andai puntualmente alle lezioni. Alcuni giorni erano più facili, altri mi veniva voglia di mollare a metà. Ma ogni volta che uscivo dall’acqua, ansimante e fradicia, mi sentivo un po’ più forte. Un po’ più coraggiosa.

Qualche mese dopo, ero di nuovo su una barca. Questa volta, circondata da sconosciuti pronti a esplorare una barriera corallina in Florida. Mio marito alzò un sopracciglio quando gli dissi che avevo iscritto entrambi a un corso di immersioni per principianti. «Ne sei sicura?» chiese, mezzo divertito.

«Sicurissima», risposi, sorprendendo me stessa per la sicurezza della mia voce.

Questa volta fu tutta un’altra storia. Il cuore mi batteva forte mentre scendevo sott’acqua, ma al posto del panico c’era meraviglia. Pesci coloratissimi mi sfrecciavano accanto. I raggi di sole filtravano nell’acqua disegnando motivi di luce sul fondale. Per la prima volta da anni, mi sentii davvero viva.

Tornati a bordo, mio marito mi batté una mano sulla spalla: «Sono fiero di te», disse semplicemente.

«Grazie», risposi, sorridendo. Poi aggiunsi, quasi timida: «Ma non ci sarei riuscita senza l’aiuto di qualcuno».

Lui mi guardò perplesso: «Chi?»

Tirai fuori il biglietto di Marc, che avevo tenuto al sicuro nel portafoglio fin dal primo giorno. Glielo porsi, raccontandogli tutto: l’attacco di panico, la maschera dell’ossigeno, la lezione imprevista sul coraggio. Quando finii, avevo le lacrime agli occhi — non di tristezza, ma di sollievo. Sollievo per aver affrontato le mie paure e aver dimostrato a me stessa di essere più capace di quanto credessi.

Mentre la barca tornava a riva, pensai a quanta strada avevo fatto. Quella decisione impulsiva — indossare una muta e tuffarmi nonostante i dubbi — era diventata qualcosa di molto più grande. Non era più solo una questione di paura dell’acqua: era imparare ad accogliere l’incertezza, a rischiare, a fidarmi del fatto che, anche cadendo, avrei potuto rialzarmi.

La vita è piena di momenti che mettono alla prova il nostro coraggio, che si tratti di un’immersione, di parlare in una riunione o di credere in noi stessi quando tutti si aspettano che restiamo fermi. Il coraggio non significa non avere paura — significa andare avanti comunque, un passo incerto dopo l’altro.

Ecco quindi il mio messaggio per te: se c’è qualcosa che rimandi da tempo perché ti spaventa, non aspettare ancora. Presentati. Prova. Fallisci, se serve — ma prometti a te stesso che continuerai. Perché a volte, la cosa più coraggiosa che possiamo fare è semplicemente iniziare.

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