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Rita si ribella alla mafia a soli 17 anni e si uccide dopo la morte di Borsellino



Nata il 4 settembre 1974 a Partanna, Rita Atria crebbe in una famiglia profondamente legata alla mafia: il padre, Vito Atria, venne ucciso nel 1985 e il fratello, Nicola, nel 1991. Fu proprio dopo quest’ultimo tragico evento che la cognata Piera Aiello scelse di collaborare con la giustizia, denunciando i responsabili. Colpita da questo coraggioso gesto, Rita, all’età di diciassette anni, decise di seguirne l’esempio. 



A novembre 1991 Rita si presentò alla Procura di Marsala e Sciacca, confidando nomi, dinamiche e relazioni criminali raccolte fin dall’infanzia. Le sue rivelazioni furono decisive per una vasta operazione antimafia, con arresti anche di figure influenti come il sindaco Vincenzo Culicchia, accusato di concorso esterno nell’associazione mafiosa. 

Dopo le denunce, Rita venne inserita nel programma di protezione: trasferita a Roma, visse con uno pseudonimo insieme a Piera Aiello e la sua piccola Vita Maria, isolata e sotto stretta sorveglianza. Lì continuò a studiare, sostenendo il percorso per il conseguimento della maturità. 

Fondamentale nella vita di Rita fu l’incontro con il magistrato Paolo Borsellino, che in pochi mesi divenne la sua unica figura di riferimento: il “protettore” che la ascoltava e difendeva. Fu lui a sostenerla negli interrogatori e a provare a ricucire rapporti familiari, in particolare cercando un riavvicinamento tra Rita e la madre. 

Il 19 luglio 1992, l’autobomba mortale nella strage di via D’Amelio uccise Borsellino. Solo sette giorni dopo, il 26 luglio, Rita si gettò dal settimo piano dell’appartamento protetto a Roma. Nella sua lettera di addio scrisse: “Sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta”, e anche: “Ora che è morto Borsellino […] non c’è più nessuno che mi protegga […] non ce la faccio più”. 

Il gesto, consumato in stato di profonda disperazione, è da molti considerato un suicidio. Secondo la cultura mafiosa, Rita rappresentò una vera e propria “figlia perduta”: dopo la sua morte, la madre distrusse la lapide nel cimitero di Partanna, cancellando quello che considerava un affronto alla tradizione e all’omertà. 

Rita Atria resta simbolo di un coraggio estremo: scelta di denunciare pur non essendo una “pentita”, ma una “testimone di giustizia”; consapevole di affrontare una vita in fuga, abbandono e minacce pur di riportare la verità alla luce. Le sue parole del diario: “Prima di combattere la mafia devi farti un auto‑esame di coscienza…” riflettono una maturità profonda e un senso di responsabilità civile diretta. 

Ancora oggi, l’esempio di Rita viene ricordato da associazioni antimafia, scuole e istituzioni che ne perpetuano la memoria, sottolineando quanto la sua scelta abbia inciso sul contrasto alle mafie e sull’importanza di sostenere i testimoni, specialmente donne, nel loro percorso di denuncia.



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