Avevo appena dato alla luce i miei gemelli prematuri, sotto luci così forti da trasformare la sala parto in un campo di battaglia, piuttosto che in un luogo di accoglienza. E io, quella battaglia, la stavo già perdendo.
Tutto accadde troppo in fretta. I medici gridavano numeri, le infermiere si muovevano con un’urgenza spaventosa. Qualcuno mi diceva di respirare, mentre il mio corpo tremava senza controllo. Non ebbi nemmeno il tempo di tenerli tra le braccia. Li portarono via, avvolti in fili e tubi, prima che potessi imprimere nei miei occhi i loro volti.
Mia figlia lottava fin dall’inizio. Minuscola, con la pelle quasi trasparente, ma il suo petto si alzava con regolarità. Ogni aggiornamento su di lei era come una promessa fragile.
«Sta reagendo bene», dicevano.
«È forte», ripetevano.
Mio figlio, invece, no.
La sua incubatrice era circondata da macchine che emettevano suoni irregolari, come un conto alla rovescia che non potevo fermare. La sua pelle si era fatta violacea, una tonalità che ancora oggi mi perseguita. Ogni respiro sembrava una battaglia che stava perdendo. Io restavo lì, impotente, con le mani premute contro il vetro, piangendo così forte da non riuscire più a vederlo.
Mi chinai, sussurrando il suo nome, chiedendogli scusa per tutto ciò che pensavo di aver sbagliato. Cercai di memorizzare ogni dettaglio del suo viso — la curva delle labbra, il movimento impercettibile delle dita — perché, nel profondo, ero certa che quello fosse un addio.
Poi, all’improvviso, le porte si spalancarono.
Una giovane infermiera entrò di corsa, il respiro corto, gli occhi spalancati come se avesse appena ricordato qualcosa di essenziale. Non poteva avere più di venticinque anni. Senza dire una parola, si avvicinò all’incubatrice di mio figlio.
«Aspetti—» iniziò qualcuno.
Ma lei non aspettò.
Lo scollegò dai macchinari. La stanza si immobilizzò. I medici si bloccarono, increduli. Il tempo sembrò fermarsi. Prima che qualcuno potesse intervenire, lei prese mio figlio tra le braccia e lo posò sul petto della sorellina. Pelle contro pelle. Due corpi minuscoli, stretti l’uno all’altro, come se fossero sempre stati destinati a stare così.
Smettei di respirare.
Passarono pochi secondi. Poi accadde l’impossibile.
Il suo colore cominciò a cambiare. Il viola lasciò spazio al rosa. Il petto si alzò — una volta, poi un’altra — regolare, sicuro, vivo. Era come se il suo corpo avesse ricordato, d’un tratto, come si fa a vivere.
Sono passati cinque anni da quella notte.
I miei gemelli oggi sono due forze della natura: sani, rumorosi, incontenibili. Litigano, ridono, corrono fino a far tremare la casa. E ogni volta che guardo mio figlio respirare senza fatica, penso a quella giovane infermiera.
Lei non ha solo salvato il mio bambino.
Ha salvato tutto il mondo che stavo per perdere.



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