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Pietro Pacciani e il caso del Mostro di Firenze: ecco perché fu assolto in appello



Tra il 1968 e il 1985, le campagne toscane furono teatro di una serie di omicidi che segnarono la storia criminale italiana. Le vittime, coppie sorprese in auto, venivano uccise con una pistola calibro 22 e mutilate con inaudita ferocia. Questa sequenza di delitti, che ha scosso profondamente l’opinione pubblica, non ha mai trovato un colpevole certo.



Nel 1993, l’arresto di Pietro Pacciani, un agricoltore di San Casciano Val di Pesa, sembrò portare a una svolta nel caso. Condannato all’ergastolo nel 1994, Pacciani fu successivamente assolto in appello nel 1996 per insufficienza di prove. La Cassazione ordinò un nuovo processo, ma Pacciani morì nel 1998 prima di poter affrontare nuovamente la giustizia, lasciando il suo nome sospeso tra colpevolezza e innocenza.

L’accusa contro Pacciani si basava su un insieme di indizi piuttosto che su prove dirette. La procura lo descrisse come un uomo violento, già condannato per l’omicidio di un rivale in amore, e con comportamenti brutali. Viveva a breve distanza dai luoghi dei delitti e conosceva bene le campagne circostanti. Questi elementi sembrarono coincidere con il profilo del serial killer che colpiva le coppie appartate.

Le indagini si concentrarono anche su un gruppo di amici di Pacciani, noti come i “compagni di merenda”: Mario Vanni, un ex postino, e Giancarlo Lotti, disoccupato. L’accusa sosteneva che avessero partecipato ad alcuni omicidi o li avessero coperti, suggerendo una sorta di rituale collettivo macabro.

Tra le prove contro Pacciani vi erano residui di polvere da sparo, fotografie di giovani donne trovate nella sua casa e testimonianze che lo collocavano nelle aree dei delitti. Un elemento chiave fu una lunga lettera anonima indirizzata agli inquirenti anni prima dell’arresto, che indicava Pacciani come possibile autore. Quando fu rinvenuto un proiettile compatibile con quelli usati negli omicidi, l’accusa sembrò solidificarsi: un uomo con un passato violento, legami locali e amici coinvolti in episodi simili.

Tuttavia, nel novembre 1994, la Corte d’Assise di Firenze condannò Pacciani all’ergastolo per sette duplici omicidi. Nonostante la condanna, l’apparato probatorio presentava crepe significative, e molte testimonianze si rivelarono fragili o contraddittorie.

Nel febbraio 1996, la Corte d’Appello di Firenze ribaltò il verdetto, assolvendo Pacciani con formula piena “per non aver commesso il fatto”. I giudici sottolinearono che la condanna di primo grado si basava su indizi e non su prove dirette. Le testimonianze ritenute decisive furono giudicate inattendibili e influenzate da ricostruzioni mediatiche. Inoltre, il profilo psicologico dell’imputato non corrispondeva a quello di un assassino metodico; Pacciani era descritto come un uomo impulsivo, difficile da immaginare come capace di pianificare omicidi complessi e di sfuggire alle indagini per anni. Anche i reperti balistici e biologici non collegavano in modo certo l’agricoltore ai delitti.

Nel 1997, la Cassazione annullò l’assoluzione, ordinando un nuovo processo per chiarire alcuni aspetti rimasti oscuri. Tuttavia, Pacciani morì nel febbraio 1998, prima dell’apertura del nuovo procedimento. La sua morte segnò una svolta significativa, poiché il fascicolo sui delitti del “mostro di Firenze” perse il suo principale imputato, lasciando senza risposta la questione che ancora oggi divide esperti e opinione pubblica.

I “compagni di merenda”, Vanni e Lotti, furono processati e condannati per alcuni omicidi. Tuttavia, le loro confessioni furono giudicate confuse e piene di incongruenze. La mancanza di riscontri oggettivi ha fatto sì che anche la loro colpevolezza non apparisse completamente convincente.

Il mistero legato ai delitti del “mostro di Firenze” persiste, tanto da meritare una fiction su Netflix. A quasi quarant’anni dagli ultimi omicidi, la figura di Pietro Pacciani rimane sospesa tra mito e cronaca. Per la giustizia, non è mai stato dimostrato che fosse il mostro di Firenze; per molti, però, continua a essere il principale indiziato di una storia terribile che ancora non ha trovato una verità definitiva.

Il processo, con le sue contraddizioni e i suoi errori, ha evidenziato quanto possa essere fragile il confine tra sospetto e certezza. Le prove, ritenute troppo deboli per una condanna oltre ogni ragionevole dubbio, non furono sufficienti a stabilire la verità. Pertanto, ancora oggi non possiamo affermare con certezza chi si nascondesse realmente dietro la pistola calibro 22 che seminò il terrore tra le colline del Chianti.

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