Abolire il test di medicina: si riaccende la polemica



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L’annuncio è arrivato come un fulmine a ciel sereno. Al punto 22 della Legge di Bilancio per il 2019 “si abolisce il numero chiuso nelle Facoltà di Medicina, permettendo così a tutti di poter accedere agli studi”. Stop al famigerato test, allora? Basta con i delusi che ogni anno falliscono l’ammissione? Tutti dentro 67 mila candidati ogni settembre, a fronte di 9.800 posti? Sì, forse, anzi no, certo non nell’immediato futuro.



La specifica è arrivata subito dopo: si tratta di un obiettivo a medio termine. «È una questione delicata», ha commentato Marco Bussetti, ministro dell’Istruzione ammettendo di non saperne nulla. «Dobbiamo studiare soluzioni che garantiscano da una parte il diritto allo studio ai giovani, dall’altra una risposta concreta al mondo del lavoro soprattutto in quei settori in cui ci sono dei vuoti da colmare». Più convinto il ministro della Salute Giulia Grillo, da sempre per l’abolizione. «Il test non è assolutamente meritocratico, dobbiamo incidere su questo perché non è un criterio che seleziona i migliori per quella disciplina, ma solo chi ha più memoria».

E la memoria serve viste le 60 domande a risposta multipla che, spesso, secondo i detrattori, poco hanno a che fare con la preparazione dei futuri medici. Nel 2018, ad esempio, è stato chiesto quale fosse la Costituzione più antica ancora in vigore, qualche anno fa l’anno di introduzione del piano Marshall. In ogni caso, l’uscita del Consiglio dei ministri ha riaperto una questione vecchia perlomeno quanto la data di introduzione ufficiale del test, ovvero il 2 agosto 1999. Con il dibattito tra i diretti interessati che subito si è infiammato sui gruppi social: «Speriamo sia vero, ho tentato tre volte spendendo soldi su soldi per i corsi privati», scrive Eleonora Giacobbo di Messina, ora iscritta a biologia; «No, noi abbiamo studiato e siamo passati, fatelo anche voi», ribatte Francesco Galli matricola 2018 all’Università Bicocca di Milano.

Anche gli addetti ai lavori sono più che perplessi. «Si immagini: per ospitare tutti gli iscritti dovrei organizzare lezioni nei cinema», argomenta con un’efficace immagine Giuseppe Paolisso, rettore dell’Università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli. «Il test può essere migliorato. Ma non certo cancellato». Ancora più tran- chant è Carlo Palermo, presidente dell’Associazione medici e dirigenti del Sistema Sanitario Nazionale: «Abolire il numero chiuso sarebbe una sciagura: già allo stato attuale, nei prossimi 5 anni avremo circa 55 mila laureati, i dottori certo non mancheranno». E allora qual è il vero problema? «Le scuole di specialità», continua il rettore. «offrono ogni anno circa 8 mila borse di studio. Ma i laureati sono 10-11 mila. E siccome per legge in ospedale può lavorare solo chi è specializzato, circa 3 mila restano fuori».

Non solo. «Grazie a questo “imbuto” formativo», aggiunge Palermo, «si è creato il precariato anche in questa categoria». Eppure, in fin dei conti, per i pazienti i medici mancano: entro il 2023 si calcola che grazie ai pensionamenti perderemo circa 45 mila professionisti, entro il 2028 oltre 80 mila. Ci sarà penuria di pediatri e cardiologi, ginecologi e psichiatri. «L’Italia è l’unico Paese europeo dove la specializzazione viene svolta all’interno dell’università», prosegue Palermo. «Se il neo laureato fosse assunto e formato dalle aziende ospedaliere metteremmo fine al paradosso per cui il dottore in medicina e chirurgia è un eterno studente che serve agli atenei e alla ricerca, ma pochissimo alla necessità assistenziale del Sistema sanitario. Con un investimento di circa 80 milioni di euro per 3.500 contratti risolveremmo il problema magari tassando di più fumo o gioco d’azzardo. Ma ci vuole la volontà politica».

Perché alla fine il nodo è sempre questo: la scarsità di risorse e la lungimiranza di chi ci governa. Anche tornando alla selezione iniziale degli aspiranti Dottor House. «Attualmente facoltà e laboratori sono calibrati per garantire una formazione di qualità a meno di 10 mila studenti all’anno», spiega il rettore Paolisso. «Se moltiplico per sei le matricole il sistema va in tilt. Certo, potremmo ampliare i numeri,arrivare a 14 mila posti iniziali». Ma al contempo dovrebbe cambiare qualcosa già alle scuole superiori. «L’orientamento degli studenti è spesso troppo superficiale. In Francia, dove questo sistema funziona e la selezione si fa al termine del primo anno in facoltà, le matricole sono appena 20 mila, un terzo rispetto a noi». Ma secondo il rettore anche il test così com’è non va bene. «Manca la parte psico-motivazionale che va introdotta assolutamente perché circa il 20 per cento di chi passa poi molla gli studi: occorre essere preparati e avere molta forza di volontà per seguire un iter di sei anni che, dico io ai miei allievi, assomiglia a un convento di clausura».

Intanto, le maglie dell’ammissione potrebbero allargarsi già dal prossimo anno. Anche perché la macchina dei ricorsi tra i delusi del 2018 è già partita. Tribunali amministrativi e Consiglio di Stato si sono già espressi sull’ammissione di singoli casi, a volte persino di centinaia di studenti come accaduto per le prove del 2017. Non è andata meglio quest’anno: Consulcesi, network legale di riferimento per gli aspiranti camici bianchi, quantifica in +40 per cento l’aumento dei delusi che sono passati già alle vie legali. «Andremo per gradi», dice il ministro Bussetti. E il dibattito continua.



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