Italiani e povertà, mezzo milione di persone rinunciano a cure e farmaci



Nel 2018, 539.000 poveri non si sono potuti permettere le cure mediche e i farmaci di cui avevano bisogno, mentre 13 milioni di persone hanno limitato le spese per visite e accertamenti. Lo afferma il Rapporto 2018 – Donare per curare: Povertà Sanitaria e Donazione Farmaci presentato oggi a Roma. La richiesta di farmaci (993.000 nel 2018) è aumentata del 22% nel quinquennio 2013-2018, sottolinea il rapporto promosso dalla Fondazione Banco Farmaceutico onlus e BFResearch. A causa di spese più urgenti (perché non rinviabili), le famiglie povere destinano alla salute solo il 2,54% della propria spesa totale, contro il 4,49% delle famiglie non povere. In particolare, possono spendere solo 117 euro l’anno (con un aggravio di 11 euro in più rispetto all’anno precedente), mentre il resto delle persone può spendere 703 euro l’anno per curarsi (+8 euro rispetto all’anno precedente). Per le famiglie indigenti, inoltre, la quota principale della spesa sanitaria è destinata ai medicinali: 12,30 euro mensili, pari al 54% del totale.



Definire la povertà non è operazione semplice. In Italia i primi tentativi di misurazione risalgono al dopoguerra, all’Inchiesta sulla miseria varata nel 1952 da un’apposita Commissione parlamentare (indicatori: sovraffollamento nelle abitazioni; consumo di zucchero, carne e vino; condizioni delle calzature). La misura di povertà relativa, ancora oggi pubblicata dall’Istat, risale invece agli anni 80 e si deve alla Commissione povertà istituita dal Governo Craxi nel 1984 e presieduta da Ermanno Gorrieri: secondo tale definizione, è povera una famiglia di due persone che consuma meno della media procapite dei consumi nazionali. Nel 2016 si trattava del 10,6% delle famiglie pari al 14% della popolazione residente.

A partire dalla seconda metà degli anni 90, l’Istat ha accompagnato la pubblicazione dei dati sulla povertà relativa con una misura di povertà assoluta, indicata come l’impossibilità per una famiglia di accedere ad un paniere di beni e servizi «socialmente accettabile». Secondo tale indicatore (profondamente rivisto nella metodologia nel 2009 e nelle serie storiche nel 2015 ) in tale condizione nel 2016 si trovava il 6,3% delle famiglie pari al 7,9% della popolazione residente. A seguito della revisione metodologica, oggi ogni famiglia ha la «sua» soglia di povertà, che dipende dalla composizione del nucleo (numero ed età dei componenti) e dal posto in cui vive (area metropolitana, grandi comuni, piccoli comuni; nord, centro, mezzogiorno). Si tratta di misure sviluppate nel contesto nazionale in assenza di standard internazionali.

In ambito europeo, sin dalla Strategia di Lisbona (2000; l’adozione da parte del Consiglio europeo di Laeken di un set di indicatori sociali è del 2001) si è affermato un indicatore di povertà relativa, inizialmente denominato incidenza di «basso reddito» e poi ribattezzato «rischio di povertà», dalla portata un po’ più ampia dell’indicatore Istat sopra commentato: secondo tale definizione, è a rischio di povertà una famiglia il cui reddito è inferiore al 60% del reddito mediano equivalente nazionale. L’ultima rilevazione – del 2016 (ma su redditi del 2015) – indica in tale condizione il 20,6% della popolazione residente. Alla fine dello scorso decennio, in occasione del varo della Strategia Europa 2020, dopo lunga negoziazione, i Paesi membri hanno ritenuto di dover accompagnare tale indicatore con altre due misurazioni della povertà e dell’esclusione sociale: l’incidenza della grave deprivazione materiale, pari nel 2016 al 12,1% della popolazione (si tratta di famiglie con 4 problematiche su 9 individuate a livello UE: dal non potersi permettere la TV, l’auto, la lavatrice, il telefono, un pasto adeguato ogni due giorni, una settimana di ferie l’anno lontano da casa, al non poter far fronte ad una spesa imprevista di 800 euro, non riuscire a riscaldare adeguatamente l’abitazione, essere in arretrato con i pagamenti – mutuo, affitto, bollette); e, infine, l’incidenza delle persone in famiglia a molto bassa intensità lavorativa (famiglie cioè in cui i mesi lavorati sono meno del 20% del potenziale) pari al 12,8% della popolazione.

Negli anni successivi all’adozione dei tre indicatori nell’ambito della Strategia EU2020, ha cominciato a diffondersi l’uso di un indicatore «congiunto», dato dall’unione dei tre indicatori adottati (figura in alto, a destra). In Italia si tratta di circa il 30% della popolazione in almeno una delle tre condizioni. La ratio che aveva portato alla scelta di un riferimento così ampio – nella media UE si tratta pur sempre del 23,5% – aveva a che fare con la necessità di lasciar liberi i paesi di scegliersi il proprio target di riferimento nelle politiche di contrasto alla povertà a seconda delle specificità nazionali, scelta forse poco oculata se obiettivo degli indicatori è anche quello di orientare quelle politiche. Da questo punto di vista appare molto più interessate l’«intersezione» degli indicatori più che l’«unione»: scopriamo così che quasi sei persone «a rischio di povertà» su dieci (figura al centro) non sono in una condizione di deprivazione materiale, mentre tra quelle in condizione di deprivazione materiale (figura a sinistra) circa la metà non è a rischio di povertà (e una su sette appartiene al 40% più ricco della popolazione!).

In realtà, le persone che sono allo stesso tempo in una situazione di basso reddito (come identificato dal rischio di povertà comunitario, cioè meno del 60% della mediana equivalente) e di deprivazione materiale – in altri termini, l’immagine più vicina al senso comune della povertà – sono il 5,6% della popolazione, un dato non lontano da quello della popolazione in povertà assoluta (e che, se incrociato anche con quello della bassa intensità di lavoro, si riduce al 2,3%). A completare il quadro, va qui citato l’approccio sviluppato dall’Istat negli ultimi anni verso una misurazione multisettoriale del Benessere Equo e Sostenibile, noto come BES (figura pag. precedente, in basso). Nell’area del benessere economico, sono ricompresi anche alcuni indicatori di fragilità: oltre alla povertà assoluta e i tre indicatori di EU2020, meritano menzione: l’indicatore di bassa qualità dell’abitazione (a segnalare sovraffollamento congiuntamente ad almeno uno tra i seguenti problemi: strutturali, mancanza di acqua corrente per bagno/doccia, luminosità), che caratterizza il 7,6% della popolazione; la grande difficoltà economica, come valutata soggettivamente alla domanda «come arrivi a fine mese?», situazione in cui afferma di trovarsi il 10,9% della popolazione. In sintesi, pur in assenza di standard internazionali, il target di una politica come il REI – che si tratti di famiglie con consumi inferiori ad un paniere socialmente accettabile o, congiuntamente, con basso reddito e situazione di deprivazione materiale – sembra identificabile nell’intervallo tra il 5 e l’8% della popolazione. Resta comunque un’area di fragilità economica – come misurata da indicatori di povertà relativa, di deprivazione, di partecipazione familiare al mercato del lavoro, di valutazione soggettiva di difficoltà economica – che coinvolge tra il 10 e il 15% della popolazione per estendersi col «rischio» di povertà fino al 20% (e oltre, se considerati cumulativamente) e che rimanda ad altre sfere di intervento più dirette a contrastare la disuguaglianza.

REI e indicatori di povertà

Gli indicatori statistici sono un utile riferimento per la policy, ma – per varie ragioni – in nessun paese i requisiti per l’accesso a misure di reddito minimo quali il REI sono determinati in maniera analoga a quanto avviene per la classificazione statistica. Si pensi alla povertà assoluta, le cui soglie sono differenziate per età e comune di residenza, o alla deprivazione materiale, fortemente induttiva sulla base dell’analisi di pochi item, o agli indicatori di povertà relativa, influenzati dai movimenti della distribuzione dei redditi o dei consumi (peraltro tendenzialmente pro-ciclici, cioè tendenti a rilevare meno poveri quando c’è recessione e viceversa): non è immaginabile che i requisiti che determinano il diritto soggettivo ad una prestazione siano in tal modo definiti. Nel caso del REI la prova dei mezzi è effettuata avvalendosi dell’indicatore con il quale si accede per norma all’insieme delle prestazioni sociali agevolate nel nostro paese: l’ISEE e alcune sue componenti. In particolare, per l’accesso al REI è fissata dal legislatore delegato una soglia ISEE di 6 mila euro, accompagnata da una soglia ISRE (la componente reddituale dell’ISEE) di 3 mila euro e due soglie patrimoniali relative a: i beni immobili diversi dalla prima casa, che non devono superare i 20 mila euro; il valore del patrimonio mobiliare (conti, depositi, titoli, ecc.) del nucleo, non superiore a 10 mila euro (ridotti a 8 mila per famiglie di due componenti e a 6 mila per un single).

Come in altri paesi, differenziare le soglie reddituali e patrimoniali permette una maggiore efficacia selettiva. Ad esempio, una soglia ISEE più alta di quella ISRE permette a chi ha solo patrimonio e non reddito di accedere ugualmente al REI; ma il patrimonio va opportunamente qualificato, il favore essendo solo per la prima casa o per beni immobili diversi dalla prima casa di modesto valore o per forme di risparmio precauzionale non di eccessivo rilievo. Ma qual è la popolazione che si trova potenzialmente nelle condizioni economiche del REI? Tenuto conto che dal 1° luglio la misura sarà pienamente universale, possiamo prescindere dalle caratteristiche del nucleo familiare (nella prima parte dell’anno, invece, nei nuclei beneficiari deve esserci almeno un minorenne o un figlio con disabilità o una mamma in attesa o un disoccupato ultracinquantacinquenne). Se consideriamo coloro che hanno richiesto l’ISEE per una qualche ragione, i nuclei nelle condizioni del REI sono oltre un milione per oltre 3 milioni di persone. Evidentemente, però, non tutta la popolazione residente chiede l’ISEE; in assenza di prestazioni sociali dedicate, anche famiglie povere possono non aver avuto necessità di presentare una dichiarazione a fini ISEE. Per tener conto anche di queste famiglie, in relazione tecnica al decreto legislativo istitutivo del REI, così come alla recente legge di bilancio che ne ha disposto l’allargamento, si assume un fattore di espansione del 15% rispetto a chi ha effettivamente richiesto l’ISEE. Si tratta di un fattore di espansione relativamente basso che sconta implicitamente la presenza di un take-up non completo della misura (cioè non tutti gli aventi diritto fanno richiesta). Anche con una ipotesi di take-up pari al 90% (come visto precedentemente, molto alto), la stima del numero di persone potenzialmente nelle condizioni previste per l’accesso al REI cresce di quasi un milione, fino a circa il 6,5% della popolazione residente, valore centrale nell’intervallo di riferimento prima individuato per la popolazione target in condizione di povertà. Attenzione, però: non si tratta degli effettivi beneficiari del REI. Innanzitutto, chi è coperto da altri strumenti – ad esempio, un ammortizzatore sociale per i disoccupati – o chi riceve trattamenti assistenziali più generosi del REI – ad esempio, tipicamente l’assegno sociale per gli anziani – non accede alla misura. Inoltre, in sede di prima applicazione, la soglia reddituale non è coperta per l’intero, ma fino al 75%: ne deriva che i nuclei con risorse proprie prossime alla soglia di 3 mila euro, pur essendo nelle condizioni economiche previste per il REI, inizialmente non avranno, in via generale, diritto al beneficio.



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