Matteo Bassetti chi è? Medico infettivologo del San Martino di Genova



Nel bel mezzo di una pandemia, virologi ed infettivologi diventano di colpo star televisive, proprio come i medici delle fiction che tanto piacciono al pubblico: in prima linea nella lotta al Covid 19, Matteo Bassetti è uno di quei volti ormai noti, che entrano ogni giorno nei nostri salotti per aiutarci a capire, per insegnarci come difenderci da un nemico invisibile eppure così temibile.



Le sue giornate le trascorre in reparto, tra pazienti e diagnosi; in tv ci mette la faccia, rassicurante e decisa, soltanto a fine turno, mai per protagonismo, come gli rimprovera qualcuno, ma perché tra i compiti del professore universitario, prima ancora che del medico, c’è quello di divulgare e spiegare a chi vuole e deve sapere. Il tempo dedicato al piccolo schermo è tempo sottratto alla famiglia, non ai malati, bensì alla moglie e ai due figli, ci tiene a precisare il professor Bassetti.

Quando si sfila di dosso il camice e varca la soglia di casa si rivela papà di Francesco, 12 anni, e Dante, 15, marito di Chiara a tutto tondo. Professor Bassetti, perché ha scelto di diventare infettivologo? «La passione per la medicina me l’ha trasmessa mio padre, fin da piccolo. Volevo inizialmente diventare cardiochirurgo, che però richiede un percorso lunghissimo, a quel punto scelgo la specialità di mio padre che è stato infettivologo.

Purtroppo il destino ha voluto che mio padre sia morto presto, e io a 35 anni mi sono trovato solo a combattere anche le invidie di chi prima mi rispettava, in quanto figlio del grande luminare». Recentemente ha pubblicato il libro Una lezione da non dimenticare (scritto con Martina Maltagliati, Cairo editore). Come è nata l’esigenza di scriverlo? «Durante la prima ondata, quando chiusi nelle stanze del mio reparto provavamo a curare una malattia sconosciuta.

Ho voluto raccontare l’aspetto umano di un gruppo di lavoro che non conosce orari, le emozioni di chi come me passava più ore in ospedale che a casa, c’è descritta l’umanità delle infermiere che si sacrificavano ore e ore, rinunciavano a raccontare le favole della buonanotte ai figli per amore della professione e descrivo anche cosa non ha funzionato». Chi scopre di essere positivo al Covid, si sente disorientato.

Cosa deve fare? «Occorre provare la temperatura, non in continuazione, ma due o tre volte al giorno, tenere sotto controllo la saturazione con l’apposito apparecchio, anche qui non più di tre prove al giorno, o se non si ha il saturimetro si può provare girando tre volte intorno al tavolo, si vede se si è in presenza di affanno. Si avverte il proprio medico che provvederà a dare la cura». Aspettiamo il vaccino come la manna, ma c’è chi ha molta paura.

Perché? «Lo trovo assurdo: occorrerebbe una massiccia campagna vaccinale. D’altra parte questo è il Paese dove si comprano le pozioni miracolose delle televendite, ma si teme il vaccino… Si chiede la grazia al santo, e magari il vaccino non si fa…».

Lei è stato molto criticato per alcune sue posizioni forti, come ha reagito la sua famiglia? «Certamente c’è stata tanta sofferenza, l’odio social è qualcosa che infastidisce, alle cattiverie non ci si rassegna, la famiglia già subisce uno choc nel vedere che la gente ti riconosce, ti ferma, se poi arrivano gli attacchi non fa certo piacere».

Com’è cambiata la sua vita dall’arrivo della pandemia? «È cambiata totalmente, tenuto conto che dopo aver diretto l’infettivologia di Udine per otto anni, nel 2019 ero appena arrivato a Genova a dirigere il reparto che fu di mio padre, dopo pochi mesi imbattersi in una realtà così sconosciuta non è stato semplice, ma la mia fortuna è quella di avere uno straordinario gruppo di collaboratori dove c’è assoluta sintonia».

Dicono che lei è sia un’icona gay, ma piace molto anche alle donne, che ne pensa? «Sono cose che mi fanno sorridere, nascono dal gossip, posso solo dirle che sono innamoratissimo di mia moglie Chiara». Secondo molti, lei piace al pubblico perché riesce a parlare del Covid, senza deprimere la popolazione.

Si ritrova in questa definizione? «Non amo spaventare il paziente, fare terrorismo non aiuta; se io dico che il virus è mortale il risultato è che il cittadino al primo colpo di tosse si rivolge al pronto soccorso, con le conseguenze che tutti conosciamo.

Da sempre, se devo affrontare un paziente con una malattia importante, non dico in modo diretto che la situazione è grave, perché il rischio è che io quel paziente lo perda anche sotto l’aspetto psicologico, e così non avrei più nessun aiuto reattivo da parte sua».

Dice spesso: “Non piaccio ai colleghi, piaccio ai pazienti”. Io sono tra quei pazienti, perché, voglio dirlo pubblicamente, lei ha curato telefonicamente sia me sia mio marito dal maledetto Coronavirus, con pazienza e competenza, non mi stancherò mai di ringraziarla per questo. «È questo il mio successo».



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